Assenza visite di controllo In tutte le società moderne è sempre molto difficile controbilanciare diritti diversi ma di eguale importanza e costituzionalmente garantiti.
Un esempio su tutti riguarda la libertà del lavoratore da un lato e il potere di controllo e gli interessi del datore di lavoro dall’altro.
Il lavoratore dipendente, infatti, è tenuto a rispettare gli obblighi di buona fede e di correttezza i quali, una volta violati, possono legittimare, come extrema ratio, il licenziamento per giusta causa.
Il significato di giusta causa non è espressamente previsto e definito dalla normativa vigente, dato che l’art. 2119 del Codice Civile si limita a definire in modo generico come giusta causa per il licenziamento quella che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro, cioè non consente neppure di proseguire il rapporto di lavoro per il periodo di preavviso.
È pertanto il Giudice del Lavoro che, caso per caso, può rilevare la giusta causa del licenziamento di un dipendente, secondo la giurisprudenza, laddove viene appunto accertata in modo concreto e non come fatto astratto la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata sia nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva.
È purtroppo all’ordine del giorno, specie nel settore pubblico, che alcuni “furbetti” si fingano malati per poter, in verità, svolgere attività o mansioni personali (siano esse di piacere o, addirittura altri lavoro).
Come può tutelarsi il datore di lavoro e quali sono le conseguenze per il lavoratore dipendente?
Recentemente, la Suprema Corte, sezione lavoro, con sentenza n. 20210/2016, si è pronunciata su un caso di un dipendente licenziato dalla società perché, durante il periodo di malattia, a seguito di un’indagine investigativa svolta dal datore di lavoro, era emerso che era uscito da casa, addirittura guidando la propria vettura, nonostante l’asserita impossibilità di deambulazione.
Gli Ermellini – confermando la sentenza di secondo grado – hanno ritenuto illegittimo il provvedimento espulsivo da parte del datore di lavoro, con conseguente immediata reintegra sul posto di lavoro e risarcimento danni.
Secondo i Giudici di secondo grado, infatti, il periodo di malattia era durato circa due mesi nel corso dei quali il lavoratore era stato sempre trovato a casa durante le visite di controllo, mentre gli accertamenti investigativi disposti dal datore di lavoro si riferivano solo agli ultimi tre giorni di malattia,
Non si ravvisavano, pertanto, nella condotta del lavoratore elementi di pregiudizio a danno dell’impresa e del datore di lavoro né vere e propri violazioni di qualche obbligo tale da influire sulla prosecuzione del rapporto, né era stato dimostrato che la malattia fosse stata simulata.
Così, gli Ermellini confermano che la condotta del lavoratore, allontanatosi da casa nel rispetto di quanto prescritto dal medico curante, svolgendo attività e piccole mansioni private, senza svolgere altre attività piene e vere e proprie, non è idonea a configurare un inadempimento a danno del datore di lavoro.
Resta, inoltre, a carico del datore di lavoro dimostrare che tale comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza.
La Corte, inoltre, fa presente che non si può pretendere la costante e fissa presenza in casa del lavoratore perché ciò entrerebbe in contraddizione con la fissazione di fasce orarie di reperibilità per le visite di controllo.
Infine, nel caso di specie, l’assenza del lavoratore dalla propria abitazione durante il periodo di malattia, può dare luogo ad una sanzione disciplinare, ma non certo ad un licenziamento inteso sempre come extrema ratio ove il Giudice abbia ritenuto che la cautela della permanenza in casa non sia necessaria ai fini della guarigione stessa.