Se decenni fa, i figli non chiedevano il “mantenimento” ai propri genitori proprio perché anche loro trovavano facilmente lavoro e anche ben retribuito – coi tempi di crisi nera, molti figli di genitori separati chiamano in causa il genitore non affidatario per chiedere un assegno mensile di mantenimento.
È oramai consolidato e risaputo che anche a favore del figlio maggiorenne non indipendente economicamente – oltre che naturalmente per i figli minorenni – in sede di separazione e, successivamente di divorzio, il Giudice, valutate le situazioni di reddito del coniuge obbligato, potrà disporre un assegno periodico a titolo di mantenimento.
È naturale che ogni situazione debba essere esaminata caso per caso, ed è chiaro che l’assegno di mantenimento non può intendersi come perpetuo potendo essere modificato o addirittura revocato!
Resta fuori dubbio che il figlio maggiorenne, o magari ultramaggiorenne, trentenne per esempio, non possa rimanere per sempre in una posizione di dipendenza economica dai genitori, gravando così sugli stessi e comportandosi come un vero e proprio parassita o, peggio, utilizzare vari pretesti per rimanere in una situazione a lui più favorevole, ovvero a “casa di mammà e papà”.
E così, il figlio che rivela un comportamento consapevolmente e colpevolmente inoperoso, accidioso o indolente, tanto da non volersi “allontanarsi da casa”, o frequenta fuori corso l’università senza profitto alcuno e non svolge nessun “lavoretto” seppure di carattere occasionale e saltuario, non può certo utilizzare l’assegno di mantenimento come pretesto per ricevere periodicamente soldi: in presenza di tali situazioni, il genitore obbligato al mantenimento può, non solo rifiutarsi di corrispondere l’assegno di mantenimento, ma chiedere in ogni momento la revoca del medesimo.
Di recente – a parere della Suprema Corte che con sentenza n. 1798 del 02.02.2015 ha rigettato il ricorso di un padre – è stata ritenuta meritevole di beneficiare di tale assegno di mantenimento la figlia ventisettenne di un genitore separato la quale aveva superato, anche brillantemente, un cospicuo numero di esami universitari e aveva svolto diversi lavori, seppure occasionali e precari e per i quali percepiva un esiguo profitto.
Gli Ermellini hanno evidenziato che, in questo caso, non si può ravvisare nella giovane donna una condotta colposa, un atteggiamento indolente o inoperoso, ma una condotta attiva, dinamica, naturalmente alla luce dei tempi che viviamo, ovvero del fatto che le retribuzioni corrisposte ai giovani durante stage, tirocini, apprendistati non sono certo tali da garantire loro una indipendenza e sicurezza economica.
A nulla sono valse le teorie del padre-ricorrente che sottolineava la necessità di un contemperamento tra le regole sul mantenimento dei figli e il principio di emancipazione ed autodeterminazione della persona umana, assumendo che, al massimo, la figlia avrebbe avuto diritto agli alimenti.
I Giudici del Palazzaccio hanno così ritenuto ineccepibile la sentenza della Corte d’Appello che si era infatti già uniformata all’indirizzo maggioritario ed oramai consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale l’obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli ex art. 148 c.c. non cessa, automaticamente, con il raggiungimento della maggiore età (18 anni), ma permane immutato finché il figlio non abbia raggiunto la tanto agognata indipendenza economica e finché il mancato svolgimento di un’attività economica non dipende da un comportamento inoperoso e colpevole, da inerzia o rifiuto ingiustificato (per esempio il posto di lavoro dista troppi chilometri da casa) verso proposte lavorative, tenendo a mente ovviamente il percorso scolastico, la formazione, le aspirazioni del giovane e la situazione concreta del mercato del lavoro.
Secondo Voi, quando ricorrerebbero i presupposti per negare l’assegno di mantenimento ad un figlio maggiorenne? Quando, invece, ritenete giusto corrisponderlo? Siete d’accordo con l’indirizzo ormai consolidato dei Giudici della Corte di Cassazione?