Ultimamente bisogna prestare sempre maggiore attenzione a quello che si scrive nei social network (Facebook, Twitter, ect.)!
Infatti, nella fattispecie un dipendente era stato licenziato a causa di alcuni commenti diffamatori verso l’azienda e verso le colleghe di lavoro.
Nel ricorso avverso il licenziamento, il dipendente ha chiesto la reintegra nel posto di lavoro e, ritenendo che il proprio post anche se offensivo non poteva essere così grave da giustificare la perdita del lavoro.
I post e i commenti con cui il lavoratore definiva “Milf” le colleghe non si trovavano all’interno di un gruppo chiuso, ma erano potenzialmente visibili a tutti gli utenti dei social media e, la rimozione degli stessi è avvenuta solo a seguito di esplicita diffida da parte dell’azienda.
Inoltre, l’espressione offensiva in acronimo “MILF” (Mother I’d Like to Fuck), di cui lo stesso ricorrente ha richiamato la definizione dal portale wikipedia, ha una forte caratterizzazione negativa, sia in relazione all’attività del soggetto (prostituzione), sia all’età avanzata (ultraquarantenni) in relazione alla professione medesima.
Il Tribunale di Ivrea ha quindi ritenuto che la condotta del dipendente integrava il reato di cui agli artt. 81 cpv, 595 c. 1 e 3 cod. penale e le espressioni utilizzate sono state pertanto ritenute di “assoluta gravità” al punto da confermare la giusta causa posta a fondamento del provvedimento espulsivo del ricorrente.
Il Tribunale ha ritenuto infatti che la condotta del dipendente, denota da un lato la mancata percezione della gravità del proprio comportamento e, dall’altro la volontà di ledere nel modo più ampio possibile la reputazione delle colleghe, senza che queste gli avessero fatto nulla.