Il lavoro, anche se precario, costituisce un miglioramento della condizione economica di una persona, se in precedenza questa era disoccupata. Su tale presupposto, la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 9765/2013, ha rigettato il ricorso di un ex moglie, la quale, assumendo che fossero peggiorate le sue condizioni di salute, voleva ottenere un aumento dell’assegno di divorzio a carico dell’ex marito.
Nel caso di specie l’ affermato peggioramento delle condizioni di salute della ricorrente non aveva però inciso sulla sua attività lavorativa; anzi, la donna, rispetto al passato in cui era totalmente disoccupata, aveva accresciuto la propria posizione reddituale, in quanto aveva trovato un’occupazione.
Quindi gli Ermellini, ribadendo in primis che vi è “errore del Giudice a quo, là dove esclude sempre e comunque l’irrilevanza di miglioramenti reddituali, che invece, secondo giurisprudenza consolidata (per tutte, Cass. n. 3898 del 2009), rilevano in quanto siano prevedibile sviluppo dell’attività lavorativa dell’ obbligata”, hanno ritenuto che il criterio da adottare per decidere circa la persistenza dell’obbligo al mantenimento fosse quello dell’effettiva capacità lavorativa del coniuge beneficiario dell’assegno.
In conclusione, considerando da un lato che la donna aveva un’attività lavorativa seppur precaria e, dall’altro che le condizioni economiche dell’ex coniuge debitore non erano migliorate rispetto all’epoca della sentenza di divorzio, la Suprema Corte ha ritenuto che erano venuti meno i presupposti in base ai quali il giudice di prime cure aveva originariamente concesso l’assegno di mantenimento e ne ha disposto la revoca.