Molte relazioni matrimoniali, anche le più lunghe, possono arrivare al capolinea: a volte i motivi sono molto gravi, spesso vere e proprie violazioni degli obblighi coniugali (fedeltà, coabitazione, assistenza materiale e morale), altre volte, invece, più semplicemente, finisce l’amore o si è superato il limite di sopportazione e di tollerabilità che rende difficile, se non impossibile, il prosieguo di una vita in due sotto lo stesso tetto o semplicemente si avverte un fastidio, un’insoddisfazione per il proprio partner.
Prima della Riforma del diritto di famiglia del 1975, era comune il concetto di “colpa” sostituito con il concetto di “intollerabilità”, stabilendo, in termini molto ampi e generali, che si può ricorrere alla separazione personale “tutte le volte in cui si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole)”, così come stabilito all’art. 151 c.c.
Ed ecco, quindi, che un concetto così ampio di “intollerabilità”, nel corso del tempo, è stato ampliato dalla giurisprudenza (spesso con orientamenti contrastanti tra loro).
Recentemente, con sentenza n. 8713 del 29.04.2015, la Suprema Corte è giunta a sostenere che costituisce intollerabilità anche “un fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi”.
Tradotto in parole povere, la crisi che ha portato all’intollerabilità della convivenza può dipendere anche semplicemente “dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi”.
Gli Ermellini, infatti – confermando la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari – hanno precisato che non si può parlare di addebito della separazione a carico della moglie che, come nel caso di specie, aveva lasciato il marito e la casa coniugale a seguito di un periodo di crisi personale – culminato in una vera e propria depressione e in un tentativo di suicidio – arrivando ad allontanarsi dalla famiglia, a frequentare altre donne (aveva altresì cambiato il proprio orientamento sessuale) e a dormire spesso fuori di casa.
Già in sede di appello, la Corte aveva ribaltato la sentenza del Tribunale che aveva riconosciuto alla moglie l’addebito a seguito dell’abbandono del tetto coniugale e di conseguenza le aveva negato l’assegno di mantenimento poiché l’abbandono del domicilio coniugale era conseguenza di una situazione di oggettiva intollerabilità, di malessere, di insoddisfazione della convivenza da parte sua, tale da giustificare la scelta di andarsene, anche se il marito non era responsabile di comportamenti contrari ai doveri del matrimonio.
La sentenza, inoltre, stabiliva la corresponsione di un assegno di mantenimento della donna che, a causa delle precarie situazioni di salute e della perdita della capacità lavorativa, si trovava nell’impossibilità di provvedere al proprio sostentamento da sola.
Il motivo di rottura, a parare della Suprema Corte, può essere tranquillamente riconducibile, quindi, alla semplice disaffezione o al distacco spirituale di anche uno solo dei coniugi.