È oramai pacifico che la violazione da parte di uno dei coniugi degli obblighi matrimoniali enunciati ai sensi dell’art. 143 del codice civile – in particolare quello di fedeltà e assistenza morale – legittima il coniuge “tradito” a richiedere, contestualmente nel ricorso di separazione, l’addebito a carico del consorte “traditore” laddove si ritenga possa sussistere un nesso di causalità tra la condotta contraria posta in essere da un coniuge (infedeltà) e l’intollerabilità a proseguire la relazione coniugale.
Alla luce di questo consolidato principio, con sentenza n. 19114 del 6.11.2012, la Suprema Corte ha dichiarato la legittimità dell’addebito della separazione al coniuge che ha tessuto una relazione extraconiugale di natura omosessuale, suffragata dalle dichiarazioni, le cosiddette testimonianze indirette, rese in fase di giudizio dai familiari e parenti della consorte tradita.
Gli ermellini, infatti, hanno attribuito ai comportamenti posti in essere dal marito della donna – incompatibili con i doveri coniugali dell’uomo – “un’ efficacia causale determinante l’intollerabilità della convivenza dopo le sue scelte”, che oggettivamente non erano più in grado di offrire la base per un “vero” e proprio rapporto di coppia.
Pertanto, è irrilevante la natura del tradimento, se omosessuale o eterosessuale, ciò basta a far venire meno i doveri coniugali e a legittimare la richiesta di addebito formulata dal coniuge tradito.