Purtroppo tra le malattie più frequenti che non portano sempre ad una guarigione e, anzi, con il decorrere del tempo, rischiano di condurre alla morte, vi è sicuramente il tumore.
Non sono rari i casi in cui, i medici e/o le strutture sanitarie vengono chiamate in causa perché responsabili di non aver tempestivamente diagnosticato una malattia che, una volta diagnosticata, è già in uno stadio terminale, oramai incurabile.
Recentemente la Suprema Corte è tornata ad occuparsi di risarcimento del danno per responsabilità medica, rilevando che l’omessa diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cosiddetto palliativo, non idoneo a guarire ma quanto meno ad alleviare le sofferenze, può determinare un danno al paziente che deve sopportare le dolorosissime conseguenze della propria malattia.
È il caso di un paziente al quale, prima di sottoporsi ad un intervento di routine al ginocchio, da una radiografia toracica effettuata, risultava una massa tumorale ai polmoni.
L’ortopedico, tuttavia, praticava ugualmente l’intervento senza effettuare ulteriori esami ed indagini.
L’intervento al ginocchio riusciva perfettamente, ma il povero paziente, dopo alcuni mesi dall’intervento, moriva e non per le conseguenze dell’intervento, effettuato secondo le regole d’arte.
Gli eredi del poveretto instauravano una causa prima avanti al Tribunale, poi, avanti alla Corte d’Appello.
In entrambi i gradi, gli eredi ne uscivano sconfitti.
I Giudici, infatti, avevano rilevato che, non sol il paziente era affetto da una malattia non curabile e non operabile, ma che non sussisteva alcun nesso causale e alcun collegamento tra l’intervento al ginocchio – perfettamente riuscito – e il peggioramento delle condizioni di salute.
Inoltre, non si era riusciti a provare in fase istruttoria, se una tempestiva diagnosi avrebbe permesso di sottoporre il paziente a cure tali da evitare il decesso.
Insomma, una tempestiva diagnosi non avrebbe mutato il quadro clinico del paziente, già seriamente compromesso.
Gli eredi dell’uomo, sempre più decisi a trovare giustizia, presentavano allora ricorso in Cassazione dove gli Ermellini, con sentenza n. 11522 del 23.05.2014, hanno ribaltato completamente le sentenzi precedenti, accogliendo in parte il ricorso dei parenti dell’uomo.
In particolare, i Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che l’omessa diagnosi di un processo morboso terminale, anche se si tratta di un male incurabile e sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona.
A parere dei Giudici, infatti, la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sofferenze e il dolore fisico dello sfortunato paziente.
Inoltre, nel caso di specie, pur essendo emersa l’esistenza di una grave patologia, che certo esulava la branca di specializzazione del chirurgo ortopedico, ma che indubbiamente meritava un approfondimento, il medico nulla aveva fatto se non quello di compiere il suo intervento e di dimettere il paziente, senza prescrivergli ulteriori accertamenti.
È probabile che non ci fosse oramai più nulla da fare, che era troppo tardi, che nessuna cura avrebbe cambiato il quadro clinico dello sventurato paziente, tuttavia, non può escludersi che la tardività della diagnosi abbia, inequivocabilmente, inciso sulla “qualità di vita” del paziente, condannando lo stesso ad un periodo in cui non ha avuto nemmeno la possibilità di somministrazione di farmaci ed interventi palliativi per alleviare almeno il terribile dolore.
Da qui il cosiddetto “danno da perdita di chances”, da intendersi non come chance di sopravvivenza (per il paziente potrebbe davvero non esserci stata nessuna cura, nessun intervento che gli avrebbe salvato la vita), ma il paziente ha perso la possibilità, la chance appunto, di vivere meglio durante il decorso della malattia, grazie alle cure palliative.
Tale sentenza, in linea con altre pronunce, ha aggravato la posizione dei medici meno avveduti e scrupolosi nelle diagnosi, la cui funzione rimane pur sempre non solo quella di evitare che il paziente muoia, ma anche di fare in modo che, se il decesso non può essere evitato, il paziente viva il più a lungo possibile e nel miglio modo possibile.