In sede di separazione giudiziale, su istanza di un coniuge, può essere richiesto a carico dell’altro consorte l’addebito della separazione laddove questi abbia violato uno o più doveri sanciti all’art. 143 c.c.
Laddove venga dimostrato e appurato che la condotta posta in essere dal coniuge, non solo sia stata contraria agli obblighi matrimoniali (fedeltà, coabitazione, assistenza materiale e morale), ma abbia altresì direttamente determinato la crisi o la fine del matrimonio, il Giudice dispone a carico del coniuge responsabile della separazione l’addebito che comporta, di fatto, la mancata corresponsione dell’assegno e, ben più grave, l’esclusone dai diritti successori.
L’arduo compito – per nulla scontato e facile – del Giudice civile sta nel definire, alla luce delle prove prodotte, se la condotta posta in essere dal coniuge, per esempio, il tradimento, è stata la causa diretta della fine del matrimonio e non una semplice e mera conseguenza di una crisi matrimoniale, magari già in atto.
Naturalmente, nel nuovo Millennio e con i nuovi mezzi di comunicazione sempre più all’avanguardia, il tradimento scorre anche, e soprattutto, in rete e sui social network.
E se è vero che l’avvento e la proliferazione dei social ha fatto aumentare a dismisura il numero di tradimenti, è altrettanto vero che questi social rappresentano di per sé un vero e proprio pozzo di tracce e prove.
Quanti di voi si sono dimenticati di cancellare una mail o un messaggio compromettente per la relazione e quante volte il partner ne è venuto a conoscenza “sbirciando” nell’altrui smartphone?
Il problema, oltre alla brutale modalità con cui si viene a conoscenza dell’infedeltà del partner, è quella di verificare, in fase giudiziale, se la raccolta delle prove disseminate dai social siano legittime e quindi utilizzabili o violano l’altrui riservatezza e privacy, garantita a livello costituzionale come diritto fondamentale della persona.
Di fatto, nel concreto, si tratta di bilanciare due diritti in egual misura fondamentali: da un lato il diritto alla riservatezza e dall’altro il diritto alla difesa.
Due orientamenti differenti uno civile, più incline a giustificare, per il tempo strettamente necessario e per determinati scopi, l’esibizione e produzione di documenti e dati personali come mail, sms, chat private scambiate con l’amante) e uno penale, più incline a condannare le violazioni della privacy.
Sotto il profilo più squisitamente penale, infatti, la giurisprudenza, nell’ipotesi per esempio di intercettazioni effettuate in casa da un coniuge a insaputa dell’altro, ritiene sussistere il reato di “interferenze illecite nella vita privata” ai sensi dell’art. 615 bis c.p.; e ancora, sempre ai sensi dell’art. 616 c. 1 c.p.c. è vietato prendere visione della corrispondenza (in tale accezione vengono compresi anche gli sms, le email e le chat private) diretta all’altro senza il suo consenso (espresso o tacito che sia).
A livello civilistico, invece, il D. Lgs. 196/2003 sul trattamento dei dati personali, pur prevedendo l’obbligo del preventivo consenso dell’interessato per la trattazione e divulgazione dei dati personali, consente una deroga laddove i dati personali devono essere impiegati per far valere un diritto avanti all’autorità giudiziaria.
A tal proposito la Suprema Corte con sentenza n. 3358 dell’11.02.2009 ha dichiarato che la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita se necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, a prescindere dalla modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza, purché il diritto di difesa utilizzando i dati personali altrui vada esercitata sempre nel rispetto della correttezza, pertinenza e non eccedenza, ovvero per il tempo strettamente necessario per esercitare il proprio diritto di difesa.
Nella aule dei Tribunali del Giudice civile, nel corso del procedimento di separazione, di massima, la condotta “intrusiva” del coniuge tradito viene “tollerata” dal Giudice e giustificata alla luce della necessità di dimostrare in sede giudiziaria l’infedeltà del consorte e avanzare la richiesta di addebito a suo carico, salvo poi la facoltà del coniuge che si è sentito violato nella propria privacy di sporgere denuncia – querela in sede penale.